E’ domenica, una fresca e umida serata autunnale. Triste già di suo, con i negozi spenti e le strade semideserte. Un ponte, quello intitolato a Padre Pio, a voler collegare due pezzi di città segnati dall’oblio di una disattenta politica urbanistica barese. Scampoli di città senza troppa vita, luogo di passaggio per chi quotidianamente va e torna. Unico, non v’è altra strada all’infuori di questa. E’ buio. Le luci ambrate del ponte illuminano come in una cartolina ingiallita dal tempo una pista che si perde nella notte. Accompagno a casa mia madre avanti negli anni e parliamo di mio padre che non c’è più, ma che continua a riempire i nostri ricordi. Ci fa bene dirci i fatti, quelli belli di famiglia, ma anche quelli tristi perché a lei servono per esorcizzare le paure del tempo che scorre e a me aiutano ad apprezzare quello che ho la fortuna di vivere. Io e lei, il passato e il presente. Inizia la salita, lenta. La mia guida è calma, lontana da quella nevrotica indotta dalla frenesia di tutti i giorni. Anche la mia voce è diaframmatica, appoggiata sulla quiete della festa che lentamente volge al termine. Mia madre è serena, paga della sua giornata con l’adorato nipotino. Ora torna casa, il suo utero materno che ogni giorno la protegge e l’avvolge nella solitudine, desiderata, a tratti volutamente ricercata, quasi a custodire come in uno scrigno prezioso quei tanti frammenti di vita vissuta che ancora le danno il gusto di guardare avanti. Anfratti di tempo difesi con pacata ostinazione dalle aggressioni del domani.
E’ lei, attenta e lungimirante ad accorgersi di due ombre che nel buio incedono stancamente e a fatica salgono il ponte. Una spinta dopo l’altra, una scalata faticosa, come a voler rimarcare un’esistenza che non deve essere stata poi così clemente con loro. Un uomo dal passo greve, appesantito dagli anni, spinge con flebile convinzione una carrozzella sulla quale è accomodata una signora, anziana anche lei, con i capelli color argento, raccolti e assicurati da una forcina in un toupé dal sapore antico. Il marciapiede è stretto e alto, da un lato le macchine che sfrecciano, dall’altro lo strapiombo e il buio che nascondono le rotaie della ferrovia. “Povere persone” dice mia madre e ha ragione. Rallento, quasi a volermi accertare che i due riescano a superare l’impegnativa arrampicata fino alla vetta del ponte Padre Pio. Rallento ancora, quasi mi fermo. Vorrei scendere per dar loro una mano, ma non posso parcheggiare l’auto sul ponte. Ce l’hanno fatta. Si fermano. Lui prende fiato, si asciuga la fronte e il collo con un fazzoletto di stoffa, di fiandra probabilmente, come quelli che si usavano una volta, bianco, profumato di bucato e piegato ad arte. Inizia la discesa e scendo lentamente anch’io fino a fermarmi al semaforo rosso, sempre odiato, ma mai come questa volta benedetto, perché mi consente di seguire con lo sguardo, attraverso il retrovisore semiappannato dall’umidità, la lenta discesa dei due. Il passo è più convinto, il peggio sembra essere passato. Ma a un tratto, alla base del ponte, il marciapiede inaspettatamente e si restringe, fino a diventare un’inutile strisciolina di mattoni, scomodo da percorrere anche da chi ha la fortuna di disporre di proprie gambe. La sedia a rotelle non ce la fa a passare. L’uomo scende dal marciapiede e con evidente difficoltà tenta di assicurare all’asfalto la carrozzella che trasporta colei che con facile intuizione dovrebbe essere la sua signora. Qualcosa va storto e la poltroncina quasi si ribalta e resta in bilico fra il marciapiede alto e l’asfalto irregolare. Scatta il verde. Devo proseguire, ma non posso lasciare lì, a combattere con il loro destino, due poveri signori ingrigiti dal tempo e dalla sorte. Passo e accosto. Corro verso di loro e a stento afferro la sedia a rotelle. Lentamente l’accomodo sulla carreggiata, dove a pochi centimetri continuano a sfrecciare, nella sonnolenta serata domenicale, auto piene di vita e sazie di pranzo festivo. “Grazie signore, che Dio la benedica”, mi sussurra l’anziana donna seduta sulle pendici della propria storia. Ha due occhi azzurri come il cielo di un giorno senza nuvole, due gote rosate e un viso dolce segnato dal tempo che non tradisce però una bellezza antica. “Ma no signora, si figuri, per così poco”. Mi sorridono e vanno via perdendosi fra le auto frettolose, nell’oscurità della sera. Torno in macchina e penso: “Dio mi benedica? Ma Dio benedica piuttosto questa nostra città e apra gli occhi dei nostri amministratori, affinché si accorgano delle troppe barriere architettoniche che di architettura hanno solo il nome, ma che di fatto sono ostacoli insormontabili che decorano, si fa per dire, vite purtroppo più sfortunate di altre”.
Riprendo la marcia, il ponte è alle spalle. Guardo mia madre, non parliamo, ma insieme sappiamo che ogni minuto assicurato alla vita è un varco verso la felicità nostra e degli altri. Un volo leggero sul vasto mare dell’indifferenza collettiva.
Antonio Curci – curci@radiomadeinitaly.it