“Non so perché preferirei essere morto, piuttosto che figo” (Stay away, dall’album Nevermind, 1991)
8 aprile 1994, mattina. Un colpo di fucile alla testa pone fine alla giovane vita dell’idolo rock più osannato degli ultimi anni: Kurt Cobain, leader indiscusso dei Nirvana, la band che, con soli 3 album all’attivo, ha rivoluzionato il mondo del rock. Viene rinvenuto cadavere nella sua villa di Seattle da un elettricista, Gary Smith, che doveva installare l’illuminazione di sicurezza. Accanto al musicista, un Remington M-11 calibro 20 e un biglietto d’addio, scritto a mano. Il referto autoptico sposterà l’ora del decesso indietro di tre giorni, al 5 aprile, e rivelerà la presenza di un’altissima dose di eroina nel sangue, circa 1,52 milligrammi per litro, oltre all’assunzione di valium.
Ma perché mai un divo, una rock star di fama planetaria, un giovane baciato dal successo, sposato e con una figlia piccola, avrebbe dovuto togliersi la vita? La risposta, forse, nel biglietto che ha scritto prima di suicidarsi: “Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. Per esempio quando siamo nel backstage e le luci si spengono e sento il maniacale urlo della folla cominciare, non ha nessun effetto su di me, non è come era per Freddie Mercury, a lui la folla lo inebriava, ne ritraeva energia e io l’ho sempre invidiato per questo, ma per me non è così. Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei.”
È la confessione di un uomo incapace di mentire, di una persona stanca, che non prova più alcun piacere nel fare ciò che ha sempre fatto e a cui deve la propria fortuna, che non riesce a reggere la pressione dei fan e dei discografici, o sono soltanto le parole di un narcisista, di un ragazzo talentuoso ma viziato e profondamente ingrato nei confronti della vita? In realtà, le ragioni che sottendono un gesto così estremo non possono mai ridursi a un paio di banali motivi: bisognerebbe conoscere bene il vissuto di quella persona, la sua storia, indagarne l’animo. E Kurt Cobain aveva innegabilmente un animo tormentato, oppresso da tante paure, tra cui quella di invecchiare, sia biologicamente che artisticamente. Come scrive al termine del biglietto, citando Neil Young, “meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.
Ma no, stiamo commettendo lo stesso sbaglio. La verità è che ciò che spinge una persona a privarsi della vita è un mistero, così come ogni persona è un mistero. Quando incaselliamo, classifichiamo, giudichiamo, rispondiamo alla nostra esigenza, umana, di razionalizzare tutto, di provare a dare ordine al caos, come quando accendiamo una lampada per tenere lontano il buio. Per Kurt Cobain, c’è chi ha parlato – come al solito – di suicidio sospetto, di omicidio mascherato, chi ha tirato in ballo il “club 27”, la maledizione che avrebbe colpito artisti come Jimy Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Brian Jones, Amy Winehouse, tutti ventisettenni. Ma lasciamolo riposare in pace, Kurt. E godiamoci la sua musica ribelle, energica, disperata, dirompente, che ha saputo rivoluzionare un mondo adagiato sull’edonismo e sulla futilità, retto dalle leggi del mercato, schiavo del consumismo. Una musica che ha dato espressione alla rabbia, al disagio di milioni di ragazzi, che in quel mondo proprio non si riconoscevano. Ecco perché, quando uscì, Nevermind schizzò in vetta alle classifiche mondiali. Perché si aspettava, un album così, se ne sentiva il bisogno. La gente era stufa, e cercava il modo di dirlo, di urlarlo a pieni polmoni. Cercava chi potesse prestargli la sua voce.
nicola papa