Quando Hotel California vede la luce, l’8 dicembre del 1976, gli Eagles sono già una band di successo. Album come Desperado (1973), On The Border (1974) e, soprattutto, Their Greatest Hits (inizio 1976) avevano venduto complessivamente milioni di copie, pur ancorandoli al cliché di gruppo country-rock (un’etichetta della quale non si sarebbero mai liberati del tutto).
La notorietà, tuttavia, aveva chiesto in cambio un pesante tributo in termini di serenità e coesione.
Nel 1976, quattro anni dopo l’uscita del primo album, gli Eagles sono un band emotivamente stanca, sfiancata dai dissidi interni.
La leadership del duo Henley-Frey è mal tollerata dagli altri membri, soprattutto dal bassista Randy Meisner, e l’innesto di un nuovo chitarrista, il talentuoso Joe Walsh, in sostituzione del dimissionario Bearnie Leadon, destabilizza ulteriormente i rapporti.
Tuttavia la loro musica non ne risente, anzi: le otto canzoni del nuovo album si nutrono di queste rivalità e le sublimano in un una varietà compositiva di raro effetto, potendo contare sull’apporto unico ma non prevalente, nella parte strumentale come in quella vocale, di ciascun membro della band.
Il successo di Hotel California sarà immediato e travolgente: slegatosi definitivamente dalle influenze country, sposando sonorità più rock e west-coast, garantirà agli Eagles una fama planetaria e sarà uno degli album più venduti del decennio.
Un capolavoro di equilibrio e guizzi geniali, che tuttavia non si risolvono mai in virtuosismi: in Hotel California ogni elemento è “al suo posto”, amalgamato con gli altri, tutto combacia alla perfezione. A cominciare dalla copertina, evocativa e conturbante, in cui è raffigurato l’immaginario hotel del titolo, un luogo seducente e al contempo sinistro.
Il brano di apertura è proprio la title-track, una stupenda rock ballad entrata nella storia, 6 minuti e 30 di pura magia.
Il celebre arpeggio iniziale su acustica a 12 corde, il basso sincopato, la voce calda e dalle venature soul di Don Henley, il doppio assolo incrociato di Joe Walsh e Don Felder alla fine, ne fanno una delle canzoni simbolo degli anni 70 e del rock in genere, al pari di capolavori immortali come Stairway To Heaven, Life On Mars? e Born To Run.
Il testo è pervaso da un senso di claustrofobia, riassunto nell’immagine dell’hotel/prigione da cui è impossibile scappare, abitato da figure strane e inquietanti.
Sul suo significato si sono versati fiumi d’inchiostro; per alcuni sarebbe una metafora dell’inferno (cosa che valse al gruppo l’accusa di diffondere il rock satanico, insieme alla leggenda secondo cui, facendo girare il brano al contrario, si udirebbe un’invocazione al demonio), per altri racconterebbe la dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Questa interpretazione fu avvalorata dallo stesso Glenn Frey, che in un’intervista disse: “Quello era un brano contro l’eccesso di cocaina. Noi non l’abbiamo mai presa con moderazione e in quel periodo cominciavamo a scoprire che ci stavamo bruciando”. Più semplicemente, le parole della canzone descrivono in maniera simbolica un mondo di disillusione, di innocenza perduta; è facile vedervi riflesso il periodo di smarrimento e di crisi interna in cui era precipitata la band dopo l’enorme notorietà.
Il rovescio della medaglia, l’altra faccia del sogno americano, quella che ti chiede un prezzo altissimo in cambio del successo.
Passando in rassegna le altre tracce, New Kid In Town è l’altro singolo famoso, un brano acustico e solare affidato alla voce country e più convenzionale di Glenn Frey, Life In The Fast Lane (“Vita Nella Corsia Di Sorpasso”, un’altra descrizione spietata del successo e dell’edonismo sfrenato) è quasi hard rock, con le chitarre elettriche in evidenza e un riff divenuto celebre.
Wasted Time è l’altro vertice dell’album, una canzone struggente introdotta dal pianoforte, che si avvale dell’interpretazione intensa di Don Henley e di un crescendo orchestrale da brividi.
Try And Love Again porta invece la firma di Meisner ed è cantata dallo stesso, l’unico brano che risente ancora delle influenze country e che forse non è all’altezza della qualità generale, mentre Pretty Maids All In A Row è una raffinata ballata pianistica scritta da Joe Walsh.
Chiude The Last Resort, un altro pezzo memorabile che racconta le tappe della scoperta dell’America (vista dalla parte degli sconfitti, o forse sarebbe meglio dire dei “derubati”), in cui la voce di Don Henley dà il meglio di sé.
Dopo Hotel California, il miracolo non si ripeterà; la band, già logorata da litigi e incomprensioni, pubblicherà a distanza di due anni un album dal titolo emblematico (The Long Run, “La Lunga Corsa”) e poi si scioglierà, salvo poi riunirsi vent’anni dopo (per scopi che molti hanno definito puramente commerciali) e sopravvivere fino ai giorni nostri, stampando album trascurabili ad eccezione di Hell Freezes Over, in cui è contenuta una bellissima versione acustica e spagnoleggiante proprio di Hotel California.
Ma ormai tutto ciò che il gruppo californiano aveva da dire, l’aveva già detto con la pubblicazione di quest’album immortale, del quale gli saremo sempre riconoscenti. Da ascoltare e riascoltare innumerevoli volte, con un’unica avvertenza: provoca assuefazione. Benvenuti all’Hotel California!
nicola papa
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