Qualche giorno fa è giunto sul gruppo Facebook della nostra testata un commento che ha causato fibrillazioni e fall-out emozionali di varia entità.
Oggetto degli animati, ma sempre civilissimi e costruttivi scambi di opinione tra redattori, un (giusto) appunto grammaticale da parte di un lettore che ha silurato una particella pronominale erroneamente dattiloscritta nell’articolo di uno dei nostri.
Immediatamente chi scrive (immeritatamente) – seppur non direttamente interessato – è stato assalito da stato d’ansia da prestazione, lingua felpata, iride spalancata e salivazione azzerata.
Chi scrive, infatti, è solitamente per intima natura persona fortemente introspettiva, sovente sagoma esposta in maniera sin troppo evidente ai franchi tiratori sempre presenti nell’affollato poligono della critica più scontata.
Diceva Pavarotti che chi sa fare la musica la fa, chi la sa fare meno la insegna, chi la sa fare ancora meno la organizza, chi la sa fare così così la critica: è opinione diffusa che l’aforisma del grande e compianto tenore sia adattabile a molti contesti e, probabilmente, sia tal quale direttamente applicabile al mestiere dello scrivere.
Orbene, poiché – al di là dell’editing che è sempre buona norma – in una Italia dove si legge sempre meno è parere di molti che qualsiasi realtà che si pone (con i lungimiranti investimenti messi a disposizione da ciceroni/imprenditori di larghe e lontane vedute) al lavoro per scrivere e creare un canale informativo sia di per sé meritoria di un qualche plauso speciale, di una qualche meritevolezza che si distacca – per propria esclusiva propulsione culturale – dal pantano di scimmie urlatrici o di macachi pronti a sbraitare davanti ad una telecamera per un lampo di folgorante e blando temporaneo successo.
Certo, lo scrivere è nobile arte del trasfigurare, del rendere fermo ciò che per natura si muove, rendere solido ciò che nella realtà sfuma, quasi sfugge. Scrivere bene, invece, è nobilissima arte di saper fare quanto prima accennato e poi, magicamente, renderlo nuovamente al lettore con la stessa dinamica del fatto, con la stessa sfumatura del reale, con lo stesso sfocamento che talvolta il quotidiano ci pone davanti, nel variegato teatro dei fatti che ci circondano.
Ricordo che la mia immeritata carriera di digitatore di parole è nata di pari passo con la voracità del lettore; in un vortice di dualismo spesso disumano, talvolta straziante, fatto di notti solitarie dopo serate passate al pub apparendo meno profondi per non passare per nerd, in una adolescenza di lampade di sole di giorno e di lampade a incandescenza di notte a illuminare pagine ingiallite di vecchi Oscar Mondadori, accompagnato in viaggi fantasiosi ora da riottosi pirati dei caraibi, ora da rozzi contrabbandieri del nord Europa, ora da controversi dandy passeggianti per eleganti città britanniche dagli assopiti ritmi delle Domeniche sul viale, dopo la Messa. L’esperienza di lettore ha acuito quella percezione, quel filtro che riesce a scindere una lettura pessima da una discutibile allontanandole entrambe da quella priva di certi requisiti, di forma, di metrica, di fatti, insomma illeggibile. Mai, devo dire, l’illeggibile è stato classificato come tale per un paio di refusi di stampa.
Altre notti, più funeste, mi hanno visto lottare prima con una tintinnante Olivetti lettera 40 (l’Italia era leader mondiale nelle macchine da scrivere) e poi con il primo PC (sempre Olivetti, M24, era il 1983 se non erro), acceso di nascosto da mio fratello Vito – legittimo proprietario – e da me programmato con un primo rozzo software di videoscrittura che trasformava in inchiostro puntiglioso steso da una stridente stampante ad aghi le prime lotte intestine, i primi dubbi sul perfezionismo possibile del narrare, la prima folle voglia di lasciare traccia di se nella storia. Lo scrivere, a sua volta, mi ha insegnato che la strada del perfezionismo stà solo in un segreto: ri-scrivere, dunque editare.
E, in tutto questo, ora che sono passati trent’anni dal primo giornalino scolastico alla scuola Don Fiore, l’onore di poter scrivere in una redazione ed in genere in una struttura fatta di gente che lavora con passione, grazie alla intuizione di un editore con passione e, infine, con altrettanti lettori che ci seguono con altrettanta, esaltante passione.
Quella di Made in Italy notizie è una realtà nuova, diversa, innovativa. Il primo quotidiano on line svincolato da politiche editoriali classiche, da binari talvolta (anche solo tacitamente) obbligati nel percorso del lecitamente raccontato e del – qualche volta – furbescamente taciuto.
In tutto questo, molti hanno riconosciuto e continuano a riconoscere un soffio nuovo, un nuovo canale che – senza troppi squilli di trombe – fa il suo dovere quotidiano di cronaca o periodico di approfondimento, di studio, di analisi del reale e, non ultimo, di costante autocritica sempre con un occhio puntato in avanti per migliorarsi, per crescere, assieme ai propri lettori.
Se fossimo un altro tipo di redazione, un altro tipo di team, forse potrebbe dunque seccare un commento in stile accademico a margine di un nostro articolo ma, di fatto, così non è; tanto più che quì, proprio nell’hard disk di chi ha scritto quest’articolo, proprio oggi è stato salvato – a memoria perpetua – un articolo di una testata nazionale on line ben più blasonata.
Orbene, oda il nostro lettore in vena di critica, anche lì (e non è l’unico) si cela un errore grammaticale che, in maniera più ironica, viene comunemente chiamato refuso da assenza di editing. Diversamente, equivarrebbe a dare dell’ignorante a chi scrive e, automaticamente, dell’ipocrita al critico che non ha il coraggio di esprimere appieno la propria critica.
Ma, del resto, si dia a Cesare quel che è di Cesare.
Un errore grammaticale non può essere sornionamente sorvolato – è cosa buona e giusta – a nessuno che faccia del giornalismo o dello scrivere il proprio mestiere, né grande né piccolo.
Scrivere correttamente su di un quotidiano è cosa dunque assai importante ma, in molti converranno, sapersi concedere una più elegante forma di appunto (magari sottovoce) – un po’ come quando il salumaio c’ha dato del crudo che era un po’ salato dopo averci fatto assaggiare tante volte del dolcissimo San Daniele – è veramente questione di pochi.
Io, per concludere, tiro dritto per la mia strada e, francamente, di eventuali future critiche a refusi me ne preoccupo quel tanto che basta a limitarne ragionevolmente la possibilità di concreta pubblicazione.
Me ne scusi anticipatamente il lettore zelante propenso alla tolleranza zero ed alla analisi grammaticale che saluto, simpaticamente, con il titolo di un libro di successo dove il successo lo fece l’antigrammatica e, per concludere, con una battuta del grande Principe che fece grande l’estro del narratore, più che il metodo del linguista.
Io, caro lettore, speriamo che me la cavo. Punto, anzi, due punti!
Roberto Loporcaro
roberto_loporcaro@virgilio.it
In un’era in cui molti scrivono online, ma assai pochi leggono, ricevere un commento, che sia pure una stroncatura, è comunque consolante, perché sta a significare che c’è qualcuno in sala. Sempre se cerchiamo nella scrittura una via di co-municazione.