C’è chi ha un deficit di piastrine, chi di globuli rossi, qualcuno di serotonina, altri di attenzione. Gli alessitimici hanno un deficit di empatia. L’etimo greco descrive bene questo deficit: “a” sta per mancanza, “lexis” per parola, “thymos” per emozione. L’alessitimico insomma è un analfabeta delle emozioni, incapace di mentalizzare, sentire, riconoscere e descrivere i suoi stati emotivi e quelli altrui.
L’alessitimia appartiene alla categoria delle malattie psicosomatiche ma la sua origine eziologica è abbastanza complessa. È una patologia di recente scoperta: sono John Nemiah e Peter Sifneos a parlarne per la prima volta negli anni settanta. Le cause del disturbo sono da ricercarsi nel rapporto tra il bambino e la madre, qualora questo sia carente in attenzioni e affetto. La natura del rapporto, la presenza o meno di cure ed attenzioni, influenzerebbero le relazioni future che il bambino andrà a costruire.
Gli alessitimici hanno difficoltà a creare relazioni stabili ed hanno perduto la capacità simbolica di dare un nome ai propri sentimenti. La scarsa attitudine ad esternare l’emotività porta inoltre ad un irrigidimento ed impoverimento dell’espressività facciale, per cui i soggetti patologici utilizzano spesso un’imitazione sociale. È raro se non impossibile che un alessitimico chieda aiuto o conforto ad una persona esterna, in quanto vi è una evidente difficoltà nel comprendere il proprio disagio emotivo. Il sintomo più grave di questa patologia subdola e difficile è la mancanza di empatia; quest’ultima rappresenta un grosso limite negli alessitimici che sono persone piuttosto insensibili e disinteressate all’altrui sofferenza.
Dietro e dentro un alessitimico spesso si nasconde dunque un bambino poco amato o amato particolarmente male. Sono in crescente aumento i giovani affetti da analfabetismo emotivo. I sentimenti, infatti, non sono solo una dote naturale ma si apprendono soprattutto attraverso la costruzione di mappe emotive. Queste si formano attraverso la cura che i bambini ricevono nei primi anni di vita e servono a sentire il mondo e a reagire agli eventi in modo proporzionato. Se nei primi anni di vita i bambini non sono seguiti, accuditi, ascoltati allora ci si trova di fronte a un misconoscimento che crea in loro la sensazione di non essere interessanti, di non valere niente. Crescono così senza una formazione delle mappe cognitive, rimanendo fermi a un livello di impulso. Gli impulsi sono fisiologici, biologici, naturali ma a questo stadio iniziale dovrebbe seguire un approccio più maturo, passando dagli impulsi alle emozioni: l’impulso conosce il gesto, l’emozione conosce la risonanza emotiva di quello che si compie e di ciò che si vede. Il passaggio successivo è quello alla forma evoluta del sentimento che consente di percepire il mondo esterno e gli altri in maniera adeguata, con capacità di risposta e accoglienza. Ma il sentimento purtroppo si acquisisce col tempo e si apprende dai genitori. Le figure genitoriali sono però sempre più inghiottite dagli ingranaggi sociali, finendo col trascurare i propri figli. Questi sempre più frequentemente vengono lasciati a babysitter o in asili nido, ignorando che non è sufficiente curare la qualità del tempo trascorso assieme,né qualche weekend giocoso: hanno bisogno di tempo in grande quantità, di essere seguiti passo dopo passo, capriccio dopo capriccio. Se i genitori non comprendono questo, sottovalutando il rischio che si corre concentrandosi esclusivamente ed egoisticamente sul proprio benessere materiale e sulle proprie ambizioni professionali e sociali, dovremo rassegnarci allora ad una generazione emotivamente non sviluppata con tutto ciò che ne consegue. Non fornire mappe emotive ai nostri figli occupandocene superficialmente, significa renderli incapaci di cogliere la differenza tra corteggiare una ragazza e stuprarla, discutere con un genitore e prenderlo a calci, incapaci di discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, facendo di loro degli inguaribili alessitimici.
Ilaria Delvino