Si dice che dopo aver visitato l’Africa ti avvolga una nostalgia malinconica che ti frulla nella testa e nelle viscere. Lo chiamano Mal d’Africa.
Credevo fosse impossibile e invece è esattamente così.
Ti mancano i loro volti, il loro cielo basso, così vicino da dare l’impressione di poter afferrare una stella mettendosi in punta di piedi.
La loro confusione, la sabbia cristallina, gli atolli di Watamu. Ci sono cose che non dimentichi più, che ti perforano la memoria e ti rintronano, tornano a popolare i tuoi sogni e il tuo subconscio.
Malindi è una città sterrata, caotica, poverissima. Una notte ho visto una mucca dormire fuori ad un tabaccaio, molti bambini sono scalzi ma l’asfalto non gli brucia i piedi. Il mercato è un brulicare di abiti colorati, di donne coperte dalla testa ai piedi, donne musulmane, rinchiuse dentro un tessuto. Loro ti osservano e tu puoi solo immaginare come siano fatte.
I negozietti artigianali ti propongono migliaia di parei, tovaglie, teli, vestiti riposti lì in fila, nell’attesa che qualcuno entri a sbirciare. I Masai, antica tribù, sono i “guardiani” della città; distinti e magici nelle loro tuniche rosse. Orgogliosi e duri, come i vecchi antenati che hanno combattuto. Le persone sono ferme agli angoli delle strade, sedute ad un gradino, ad osservare la vita che gli passa accanto. Alcuni hanno smesso di crederci, hanno smesso di vivere, lasciando spazio al SOPRAvvivere. E’ quella la loro vita, è stata la stessa vita dei loro genitori, non pensano ad un riscatto o ad un cambiamento di sorta.
Ti rimbombano i loro “mama” nelle orecchie, le loro richieste affannate e affannose di un sacco di farina, di una maglietta nuova.
Si mettono a tua dispozione, hanno nel sangue il colonialismo inglese, l’ubbidienza, l’umiltà.
Ma è una città felice da cui – noi occidentali – avremmo tanto da imparare. I loro sorrisi ti restano stampati nel cuore.
Le risate fragorose in cui scoppiano vedendo noi italiani che indossiamo un paio di occhiali strani, l’energia, il loro andirvieni dai villaggi alle città appena sorge il sole, kilometri e kilometri macinati con le ceste in testa piene di speranza.
I bambini con i grembiulini verdi che vanno a scuola, con i capelli rasati, maschi e femmine, senza distinzione. Con i loro zainetti pieni di nulla. La scuola è l’unica possibilità che i genitori possono dargli, l’unica via d’uscita in un paese dove – purtroppo – uscita non c’è.
L’orfanotofio di Malindi si trova in una zona appena fuori la città, subito dopo il carcere. Qui ci sono tutti gli orfani che la polizia ha trovato in campagna o in città e che ha portato lì.
Il loro dormitorio è formato da migliaia di lettini accatastati con un coprimaterasso e null’altro, gli spazzolini a volte conservati nelle scarpe. Sui muri i nomi dei bambini a cui tocca il turno del giorno per pulire la stanza. Il pollaio dove sono allevati polli e galline che danno uova e carne. Tre bagni, pubblici, per tutti, in mezzo a un campo dove corre solo acqua fredda.
Una bambina di undici anni mi ha preso per mano e mi si è spezzato il cuore salutandola dal finestrino, mentre andavo via.
L’Africa non è solo un continente. E’ una storia infinita da raccontare.
Francesca Fusaro