Alle 22,39 del 9 ottobre 1963 si staccò dalla costa del Monte Toc, situato sul confine tra le province di Belluno e Udine, una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra che, in circa 20 secondi, rovinò a valle.
Durante la caduta la massa generò una ondata sismica mentre l’impatto con l’acqua del sottostante bacino generò tre onde: una si diresse verso l’alto, lambì le abitazioni di Casso e ricadendo sulla frana andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un’altra si diresse verso le sponde del bacino e attraverso un’azione di dilavamento delle stesse distrusse alcune località in Comune di Erto e Casso. La terza, di circa 50 milioni di metri cubi di acqua, fu la più devastante: scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta escludendo la strada che coronava la parte superiore dell’opera e precipitò nella stretta valle sottostante. I circa 25 milioni di metri cubi d’acquaraggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono il municipio e le case poste a nord di questo edificio) e di altri nuclei limitrofi e la morte, nel complesso, di circa 2000 persone (i dati ufficiali parlano di 1918 vittime, ma non è possibile determinarne con certezza il numero).
Indagini negli anni a seguire evidenziarono le responsabilità di progettisti e tecnici nonchè degli stessi Enti pubblici che addirittura indagarono una giornalista (Tina Merlin) , poi ovviamente assolta, accusandola di “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.
Se si fosse dato il giusto peso ad una semplice indagine e denuncia giornalistica, probabilmente si sarebbero potuti evitare oltre duemila morti, tra cui bambini, uno dei quali – di soli due anni – è addirittura riportato in un commovente quanto devastante racconto di uno scampato, che riportiamo al sottostante link preannunciando che i colleghi Emiliani hanno inserito immagini che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori.
Leggi la testimonianza sul Vajont di un sopravvissuto
Roberto Loporcaro