Dai corsi di inglese nelle università, passando per le “english school” a finire coi laboratori di lingua straniera per bambini: un percorso globalizzante ma anche un po’ svilente. Per ogni anglicismo che nasce, c’è un vocabolo italiano che muore. E un po’ moriamo anche noi, dimenticandoci le nostre radici, trascurando la nostra cultura. Forse abbiamo perso fiducia in noi stessi, persino nella nostra lingua. Ci stiamo man mano convincendo che l’italiano non sia in grado di produrre lavoro e autorealizzazione.
Tra lo sconforto e il senso di smarrimento si confermano e rafforzano processi lunghi quasi un secolo. Le responsabilità della propensione ai forestierismi nascono infatti già con l’Accademia d’Italia, negli anni venti. Il decreto legislativo di Umberto di Savoia poi, completava l’opera, abrogando le norme degli anni ’40 circa l’uso di parole straniere nelle lettere commerciali. Ma se indagare il passato porta esiti incerti, oggi c’è un evidente e ingiustificato abuso degli anglicismi, ed esistono anche corsi d’inglese a partire dai 18 mesi di vita. Tra mode, tendenze e corsi di lingua neonatali, nel giro di pochi lustri l’italiano potrebbe trovarsi mutilato.
“Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.” Scrive così Dante nel suo Convivio, nel lontano 1300, parafrasando inequivocabilmente quella che oggi è una reale minaccia per la cultura italiana. Mutatis mutandi, dovremmo fare tesoro del suggerimento dantesco attraverso un uso misurato degli anglicismi: la regola vale sia per i discorsi di basso profilo di alcuni settori attuali della nostra informazione, dallo spettacolo alla politica, sia per gli atenei. Quegli atenei dove hanno insegnato scienziati come Galileo Galilei, economisti come Antonio Genovesi grazie ai quali le scienze, cosiddette pure, hanno parlato, per la prima volta nella storia, l’italiano.
Dietro il pericoloso pencolare verso l’impoverimento della nostra lingua, ci sono una superba ignoranza largamente diffusa e la pigrizia della comunità scientifica a tradurre i neologismi stranieri incipienti. La mancata traduzione immediata, impedisce di arrivare, attraverso il calco formale e il calco semantico, a un possibile arricchimento del lessico italiano. L’atteggiamento proclive all’uso dei termini stranieri uccide così la lingua e pure il senso di identità collettiva: la consapevolezza della nostra storia ha ceduto il passo a un progressivo inaridimento. Il risultato è nei giovani, demotivati, malati di apolidia, pronti a lasciare il Paese. Quel che è più grave è che gli italiani, senza distinzioni di genere ed età, sono gli ultimi nelle classifiche sulle capacità di comprensione di un testo: il dato, allarmante, emerge da una recente indagine della OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
Si studia male, si scrive poco, si legge ancora meno. L’emarginazione dell’italiano coinvolge dunque ogni ambito della nostra cultura, e assieme al lessico, l’esclusione riguarda anche la letteratura e le arti figurative. Eppure l’arte e la poesia nostrane regalano emozioni che nessun’altra tradizione è capace di dare. Ma se è vero che la commistione delle lingue è la spontanea conseguenza dell’osmosi culturale, è altrettanto vero che in Italia avviene in modo perlopiù acritico e insensato. C’è che ci accontentiamo di gonfiare il nostro curriculum di vuoti inglesismi per sentirci migliori. C’è che cambiare le parole ci dà l’illusione di aver cambiato le cose. E in nome del nulla stiamo svendendo tutto del nostro Bel Paese, persino il vocabolario. Resterà ben poco del caro vecchio “made in Italy”, di certo resteremo senza parole.
Ilaria Delvino