Appare distante, quasi estemporale, la dicotomia dei tempi che corrono e che, in realtà, sono corsi.
Il mondo occidentale, evidentemente, è alle prese con la morsa di una crisi che non molla; in una estrema semplificazione ed unificazione delle complesse problematiche, qualche esperto sintetizza l’attuale congiuntura economica come legata alla cocciutaggine degli “investitori”, al loro immobilismo ed in estrema sintesi alla loro fatica a discostarsi dalle fallimentari teorie macroeconomiche finalizzate alla massimizzazione degli utili ed alla trasposizione del lavoratore da componente viva a semplice componente del ciclo produttivo.
Già l’indimenticato Papa Giovanni Paolo II poneva negli anni ottanta al distratto mondo “rampante” il monito di prestare attenzione alla importanza del lavoro umano non come mero fattore produttivo ma come strumento vivo e di accrescimento non solo del lavoratore ma, più nel complesso, della famiglia e dunque a stretta attinenza della stessa quale cellula essenziale dell’intero sistema economico e sociale.
Con la globalizzazione già alle spalle e la delocalizzazione come tantra che ormai percorre tanto i corridoi direzionali delle multinazionali che i più periferici uffici delle imprese minori – specie Italiane – alle prese con criticità endemiche scaturenti da pesanti GAP sistemici (inclusa una sostanzialmente inconcludente classe politica), l’Economia mondiale continua imperterrita nei suoi vortici e correnti, cambi di direzione e rotte obbligate, sempre diversa e sempre uguale a se stessa dacchè essa sia giunta in quest’era post-industriale.
Negli anni ottanta si parlava di nord e sud del mondo, quasi che i mercati si fossero autoregolamentati per stabilire all’equatore o giù di lì il confine tra l’emisfero florido e quello decadente, tra quello rinascimentale e quello – per universale concezione – legato ad una nozione antropica relegata a sistemi e società rimaste ferme o comunque relegate per infausto destino a clichè di stampo o stretta (e talvolta erronea) comparazione con il nostro medioevo, nel peggiore dei casi scremato dei pur riscontrabili validi picchi di civiltà.
In tutto questo, mentre il mondo occidentale o comunque delle superpotenze (e relativo sciame di ‘”nazioni vassallo”) si interrogava su come rendere la teoria del “selfmademan” una universale idolatria, minando per quanto possibile con percorsi normativi e comunicativi alle fondamenta dei principali sistemi di convogliamento costruttivo delle coscienze (volgarmente dette religioni) ovvero mantenendo ipocritamente le stesse in posizione di fatto marginale, ai confini del regno vigeva l’anarchia ovvero un fertile humus ideale incubatore colturale dei peggiori , e ironia della sorte proprio religiosi, estremismi.
Abbiamo aperto l’articolo, per consentire una immediata riflessione al sodo, con una foto scattata nell’Afghanistan degli anni sessanta.
Ora, non occorrerà ricordare in questo modesto articolo redazionale come il disastroso avvento di pericolose correnti estremiste nella storia abbia finito con l’inficiare sulla cultura e sulla stessa vivibilità e civiltà di intere nazioni.
Le foto, che quì alleghiamo in un excursus spesso distante solo qualche decennio, mostrano regressioni impressionanti che non possono che far riflettere sulla necessità forse di riconsiderare l’ordine delle priorità, ridimensionando le teorie economiche in favore di quelle effettivamente promotrici di un costante e diffuso progresso sociale.
Vogliamo, per una volta, lasciare la parola alle immagini. Vogliamo, per una volta, fare comprendere che la nostra è una tranquillità provvisoria – rispetto ai decenni che ci aspettano – ed è dunque necessario agire, qui e ora, per programmare un futuro privo di questa, particolare e a volte infima – perché relativamente silenziosa – guerra dei mondi.
Roberto Loporcaro
Link foto storiche : https://lunanuvola.wordpress.com/tag/pakistan/