Lungo tutta la sua filmografia, Christopher Nolan ci ha sempre stupito abituandoci a pretendere sempre qualcosa in più per ogni sua opera. Dopo aver concluso la trilogia del Cavaliere Oscuro e aver esplorato i recessi mentali e onirici con Inception, il regista britannico si spinge ancora oltre scrivendo e dirigendo Interstellar.
Grazie alla consulenza del fisico teorico Kip Thorne, Nolan compie un viaggio “interstellare” per salvare l’umanità dalle piaghe che hanno distrutto e decimato le risorse alimentari sulla Terra. Inoltrandosi in wormhole e buchi neri, i protagonisti Matthew McConaughey e Anne Hathaway cercano un pianeta dove potrebbe attecchire la vita, ma raggiungere galassie lontane anni luce è un’esperienza che porta ai limiti estremi la resistenza cognitiva della mente e del corpo umano.
Come in 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (pellicola che nel 1968 ha rivoluzionato la science-fiction della Settima Arte), Interstellar non è un semplice film di fantascienza ma un trattato sulle implicazioni della sopravvivenza della specie. Quest’ultima viene vista come qualcosa che, necessariamente, dovrebbe andare oltre il particolarismo di ciascuna singola vita umana, ma che piuttosto dovrebbe tener conto esclusivamente del bene generale della specie.
Per compiere quest’audace operazione, Nolan pecca di alcune lacune narrative che mettono a dura prova la sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore. Per colmarle il regista britannico si serve di effetti speciali che descrivono altri mondi a più dimensioni, incredibilmente descritti già nel 1882 da Edwin A. Abbott nel visionario romanzo breve Flatland.
Giovanni Boccuzzi