L’economia criminale nel Pil. Mah?
A partire da settembre un certo numero di paesi europei ad esclusione della Francia, tra cui però, l’Italia, inseriscono nel calcolo del PIL alcune forme di economia “criminale” (contrabbando, prostituzione e droga). La decisione proviene da Eurostat, l’agenzia statistica della Comunità Europea.
Il PIL, tra tutte le statistiche economiche, è una delle più importanti e ha assunto un valore che si spinge ben oltre le classifiche tra paesi o della semplice misurazione della “ricchezza” materiale prodotta in un determinato periodo di tempo. Un valore che, nel caso dell’Unione Europea, è confermato da trattati internazionali che vincolano i comportamenti dei paesi membri e che influenzano reciprocamente la vita, le speranze e il benessere di 500 milioni di persone. Naturalmente, facciamo riferimento principalmente al Trattato di Maastricht e agli accordi successivi, attraverso i quali è stata creata la moneta unica.
Quindi, un’appropriata interpretazione di alcuni rapporti chiave, come quello del deficit/Pil e quello del debito/PIL, proviene proprio da una corretta misurazione del PIL, determinando nella loro applicazione pratica accordi internazionali.
Nel trattato di Maastricht si è deciso di usare il PIL e non qualche misura alternativa di benessere o di felicità e sono state, peraltro, escluse alcune forme di attività come il lavoro casalingo, questo, per un motivo molto semplice: queste misure o queste attività non determinano una potenziale “base imponibile” su cui i governi possono contare per rispettare gli impegni assunti nei confronti degli investitori, privati e istituzionali, che, acquistando il loro debito, hanno finanziato la quota di spesa pubblica non coperta dalle tasse. Il PIL, se calcolato correttamente, rappresenta la misura più affidabile della capacità di un’economia di produrre reddito “imponibile”.
Da un punto di vista dell’investitore, basterebbe anche solo l’introduzione dell’economia “sommersa” cioè quelle attività perfettamente legali ma non dichiarate, come come ad esempio quelle somme versate in nero alla badante o all’idraulico, nel calcolo del PIL per inquinarne l’attendibilità: il reddito prodotto dell’economia sommersa è inutile ai fini della determinazione della sostenibilità delle finanze pubbliche poiché per definizione sfugge alle autorità fiscali del paese. Di conseguenza, è chiaro che li dove un certo numero di evasori fiscali possedessero beni di lusso, risultando da un punto di vista del reddito, nullatenenti, lo Stato pagherà uno spread elevato sui suoi titoli anche se formalmente il rapporto deficit/PIL risultasse inferiore al 3 per cento a causa di un PIL gonfiato dalla stima del reddito evaso.
Nel 2006 la Grecia rivalutò del 25 per cento il proprio PIL, includendo economia sommersa ed economia criminale. Così, riuscì a mascherare che il rapporto deficit/PIL avesse superato il limite 3%. Tutti conosciamo l’epilogo della vicenda. Un’operazione analoga fu intrapresa anche dall’Italia nel 1987 limitata, però, solo all’economia sommersa.
Adesso, però, cerchiamo di capire la differenza tra economia “sommersa” ed economia “criminale”: se all’interno del PIL includiamo oltre una stima dell’economia “sommersa” anche quella dell’economia “criminale”, il rischio è quello di fare un errore di logica economica. L’economia “sommersa” vi è la possibilità che emerga qualora si attuasse una una lotta all’evasione più proficua mentre, l’economia “criminale” non potrà mai emergere.
L’economia “criminale” viene affrontata quotidianamente dalle istituzioni con l’obiettivo di eliminarla, non di farla emergere, in quanto dannosa e lesiva per il capitale umano, sociale ed economico. Naturalmente, questo implica che anche attività perfettamente legali ma dipendenti dall’economia “criminale” sono a rischio.
Rischia di essere molto fragile l’economia sana del paese quanto più è la quota di economia criminale presente nel PIL.
In questo contesto, volendo fare un’attenta valutazione, l’economia “lecita” dovrebbe avere un peso del 100 per cento nel PIL, mentre l’economia “sommersa” un peso inferiore al 100 per cento, ed infine l’economia criminale dovrebbe invece avere un valore negativo.
Per entrare nel merito della questione possiamo fare un esempio: se un magistrato arrestando un’intera cosca mafiosa azzerasse l’afflusso di denaro da questi prodotto dal traffico di droga, contestualmente andrebbe ad eliminare anche parte di economia lecita che gli stessi mafiosi alimenterebbero con l’acquisto di autovetture di lusso, ristrutturazioni di immobili, il pagamento di vitto e alloggio alle famiglie dei carcerati e tanto altro. In questo caso il PIL del territorio si sgonfierebbe non solo per l’ammontare “criminale” ma anche per quello “lecito” che le attività criminali avrebbero reso possibile.
In tutto ciò non è cosa semplice fare una stima del valore aggiunto delle attività criminali, tanto più se consideriamo il traffico di droga: l’eroina e la cocaina non sono prodotte in Italia, ma sono importate e, tolta la parte dei consumatori italiani, una buona parte viene poi esportata in altri paesi europei. A questo punto sorge una domanda: il margine dell’attività di import-export in quale settore del PIL sarà incluso? Stando ad un recente studio dell’inglese Office for National Statistics, il margine degli spacciatori nella rivendita di droga importata dall’estero dovrebbe essere classificato tra i proventi dell’industria farmaceutica.
A questo punto come può l’Istat calcolare quale parte del valore aggiunto, creato con il traffico di droga o la prostituzione, rimane in Italia?
Considerato che, mediamente, l’intento di chi svolge un attività criminale è quella di spedire all’estero gli introiti (droga o prostituzione) per sfuggire ai controlli della polizia e della magistratura italiana, questi non dovrebbero entrare nel PIL italiano se non per la parte relativa al mantenimento della struttura criminale in loco.
Sarebbe poi curioso capire come l’Istat aggiornerà le stime del PIL in base alle operazioni di polizia e all’azione della magistratura che, come già detto, sono finalizzate all’azzeramento delle attività criminali.
L’inclusione dell’economia criminale all’interno del PIL, quindi, avrebbe senso solo se l’Europa intendesse legalizzare quel tipo di attività, diversamente, rappresenta solo una fonte di errori statistici.
Questo, rappresenta il frutto di una interpretazione “ideologica”, spesso errata del concetto di “domanda di mercato” e “comune accordo tra le parti” rendendo difficile capire quali siano le attività criminali che fanno parte del PIL e quali non vi rientrano.
L’economia di mercato costituisce un sistema economico in cui i processi di scambio vengono regolati dai Mercati tramite il meccanismo dei prezzi. Gli individui non devono subire coercizioni, altrimenti non è più un’economia di mercato.
Si può parlare di “comune accordo” tra un drogato e uno spacciatore?
Si può considerare “libero scambio” quello tra un uomo e una prostituta, se questa è stata costretta con le sevizie e la violenza a fare una scelta di vita così degradante?
A questo punto, perché escludere il “pizzo”, la “mazzetta” o l’usura dalla definizione di libero scambio?
Perché non considerare la speculazione edilizia sul territorio del demanio, dove più che il “comune accordo” vale il principio del “silenzio-assenso”.
E infine quando considereremo nel PIL anche la “libera compravendita” di organi e lo scambio di materiale pedo-pornografico?
Massimo Pellicani