BARI – Dieci anni dopo gli arresti, quasi un anno e mezzo dopo i rinvii a giudizio e due anni prima che si prescriva anche il reato più grave, il peculato, precisamente due anni or sono non era ancora cominciato a Bari, per problemi di composizione del collegio giudicante (prima che la scelta cadesse definitivamente nel collegio giudicante della Seconda Sezione Penale) il processo infinito sulle presunte malefatte legate alla gestione della Missione Arcobaleno. L’operazione umanitaria fu voluta nel 1999 dal governo D’Alema in Albania per sostenere i kosovari in fuga dalla loro terra bombardata dalla Nato per scacciare le truppe dell’allora leader serbo Slobodan Milosevic. A giudizio c’erano ben diciassette persone tra cui l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri Franco Barberi, all’epoca dei fatti capo della Protezione civile. L’inizio del processo era previsto per il 5 febbraio 2009 ma l’incompatibilità di buona parte dei giudici della sezione giudicante (che erano gip all’epoca dei fatti) non ha finora permesso di andare oltre la costituzione delle parti. L’udienza fissata dinanzi al collegio giudicante a fine marzo 2010, infatti, era stata daccapo rinviata e gli atti rimessi al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino. Al quale toccava indicare i giudici compatibili a celebrare il processo, che a metà maggio prossimo non potranno far altro che prendere atto dei termini ormai decorsi e sancire l’avvenuta prescrizione di tutti i reati contestati a suo tempo dalla Procura della Repubblica di Bari. Anzi, dall’allora sostituto procuratore Michele Emiliano, prima che qualche anno dopo diventasse sindaco della sua città e passasse l’incredibile mole di fascicoli al collega Marco Dinapoli, costretto praticamente a ripartire da zero nell’indagine. E vista la complessità del procedimento, era inevitabile che tutto finisse in cavalleria, comprese le accuse contestate all’ex ministro Barberi per l’associazione per delinquere assieme al suo segretario Roberto Giarola, al capo della missione Massimo Simonelli, al capo del campo profughi di Valona Luciano Tenaglia, al volontario della protezione civile Alessandro Mobono, e ad Emanuele Rimini, Luca Provolo e Antonio Verrico. Nei loro confronti si era perfino costituita parte civile la presidenza del Consiglio dei ministri. A Barberi, a Giarola e a Cola, l’accusa contestava d’aver ottenuto, abusando “di una fitta rete di rapporti personali intrattenuti con esponenti apicali della politica, del governo, del sindacato e della pubblica amministrazione”, la rimozione del prefetto Bruno Ferrante (“che si adoperava contro gli interessi dell’associazione”) dall’incarico di capo di gabinetto del ministero dell’Interno. Gli stessi imputati – secondo l’ormai inutile lavoro della pubblica accusa – si adoperavano poi “per ottenere la nomina di Barberi a direttore dell’Agenzia protezione civile e quella di Cola a componente del Cda, sebbene Cola non avesse titoli per farlo”. Infine, all’organizzazione era stato contestato di aver favorito ditte amiche per l’aggiudicazione di appalti pubblici (divise per le forze di polizia) e in particolare di favorire l’attività della multinazionale americana “GorE”. L’inchiesta sulla missione umanitaria portò, il 20 gennaio del 2000, all’arresto (per tre mesi) di quattro persone: Simonelli, Mobono, Tenaglia e la dipendente della protezione civile Silvia Lucatelli, tutti a giudizio. In un processo che, dopo costi incredibili riversati tutti in capo dell’ignara collettività, anche a causa dei troppi intoppi procedurali, cambi di giudici inquirenti e requirenti, non arriverà mai a sentenza. Con buona pace di chi ancora crede in quella giustizia con la ‘G’ maiuscola…
Quotidiano di Bari
Francesco De Martino