Sono passati 36 anni da quella mattina del 16 Marzo in cui la fiat 130 che trasportava l’onorevole Aldo Moro e l’altra vettura furono fermate, nel giorno della instaurazione del governo Andreotti (il quarto), e in un attimo le Brigate Rosse posero fine alla vita di cinque agenti di scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) all’incrocio tra via Fani e via Stresa, portando con se il Segretario della Democrazia Cristiana.
Nel silenzio assordante che da sempre attornia quei cinquantacinque giorni di prigionia all’interno del bunker poi identificato in un appartamento di via Montalcini, l’Italia oggi si confronta con i fantasmi del passato di un sistema dove l’estremismo armato, avverso più all’ideologia che alle effettive carenze istituzionali, volle porre fine alla vita del giurista che tra l’altro ha lasciato tra le sue ideazioni la Statale 16 Adriatica che discende sino nel Salento, unica arteria in carenza di un ramo autostradale che congiunga il tacco d’Italia all’Europa.
Leggendo il libro “Aldo Moro – ultimi scritti” (Curato da Eugenio Tassini – ed. Piemme) sono ben rappresentati i primi segnali di una classe politica che inizia quel percorso autoreferenziale e filosofico al limite dell’immobilismo, perché è di fatto l’immobilismo che causa le condizioni che agevolano la scelta facile delle BR, ovvero la morte del Giurista.
Nelle lettere di Moro è facile leggere tra le righe episodi di vita privata, aneddoti di Partito, piccole e grandi “punte d’iceberg” che evidenziano come la Democrazia Cristiana – ieri così come oggi – presentava visioni quando non anche fazioni anche contrapposte e di come dall’emergere di questa o quell’altra corrente si indirizzasse il futuro di un Paese, comunque proiettato al galoppo verso il terzo millennio.
Fa ridere, fa molto ridere – amaramente e fino alle lacrime più disperate – la disposizione testamentaria che lascia l’unica proprietà immobiliare (porzione del 50%, l’altra metà era della moglie) dell’appartamento “al terzo piano scala A di via Trionfale 79” alla figlia Maria Fida.
Fa pensare, e molto pensare, la crudezza con la quale si rivolge durante la prigionia al collega Andreotti.
Fa riflettere, e molto riflettere, come sia cambiato questo Paese: siamo passati dal sequestro ed uccisione per motivi ideologici di un Professore Universitario che non ha certamente cambiato la sua posizione economica con l’attività politica a gente proiettata nelle vette dell’economia (e della ricchezza) dopo discutibili carriere, incluse quelle di soubrette, leccapiedi, comico o sobillatore di Popolo.
Chissà come sarebbe l’Italia di oggi, se si fosse lasciata a Moro la possibilità di vivere.
Chissà come sarebbe l’Italia di domani, se tutti sapessimo prendere e pretendere una nuova coscienza civica passando ideologicamente da quel testamento, scritto in prigionia, che lascia le poche cose a figli e nipoti, ma una identità di sobrietà e onestà ideologica e pratica ad un intero Paese.
Roberto Loporcaro