Avremmo dovuto già imparare la lezione, impiegare le nostre risorse nel modo più giusto, restituire sicurezza ai paesi più vulnerabili alle calamità naturali. La faglia appenninica attraversa l’Italia in tutta la sua lunghezza e le catastrofi degli anni passati sono state solo il sintomo dell’egoismo umano. Le autorità non si sprechino in formalismi inutili. Non basta più, serve concretezza. Le tragedie invece sono diventate solo cibo per un giornalismo avvoltoio che viviseziona il dolore e costruisce con meticolosa attenzione la sua pornografia del lutto. Perde pezzi di cuore il giornalista, risucchiato com’è in questo vortice di interessi e lotta per la sopravvivenza, costretto a fare sciacallaggio di notizie, raccogliere disperazione e sconforto, rincorrere il sensazionalismo mediatico per guadagnare pubblicità e successo. Schiavi della paura, rispondiamo supinamente a chi governa le nostre teste, rinunciando alla nostra umanità, accettando la becera logica del compromesso, svendendoci come merce in saldo. Ci accontentiamo di ridurre il nostro orgoglio alla parola altisonante, facendo altrettanto col nostro senso umano, scomposto in piccoli pezzi, il risultato di un mal digerito vittimismo.
Io invece faccio l’elogio della parola media alla maniera oraziana della media res; aulicismi non ne servono. È nella lingua quotidianamente usata che si ritrova l’essenza della vita vissuta, delle piaghe dell’esistenza. Piaghe che devono essere curate e soprattutto evitate. Non serve raccontare alla gente quanto sia doloroso morire schiacciati da un terremoto, da una bomba o da un terrorista: serve trovare soluzioni e chi è preposto a questo deve assumersene le responsabilità. Il governo delle parole e delle carte deve fare spazio al governo dell’efficienza e la classe dirigente avara e accentratrice, oggi comoda nella sua poltrona, dovrebbe onorare i diritti dei cittadini, preoccuparsi del benessere e della sicurezza di questi.
Ci siamo persi in chiacchiere, è questa la verità, concentrati come siamo a plastificare il mondo e noi stessi, e ora ci scivoliamo su quell’involucro di plastica e non riusciamo più a riprenderci ciò che è dentro. Siamo figli trascurati di una società che è diventata insensibile e impermeabile all’amore e alle virtù dell’uomo. Chiedo a tutti voi che mi leggete, chiedo a me stessa di non arrenderci alle brutali e perniciose abitudini utilitaristiche odierne, di continuare a operare, ognuno nel suo campo di interesse, con tenacia e coraggio.
Ilaria Delvino