Il pieno consenso di pubblico e critica, ha accompagnato l’uscita di “I, Tonya”, l’ultimo lavoro di Craig Gillespie, incentrato sulla vicenda vera di Tonya Harding, fenomeno assoluto del pattinaggio, ma personaggio assai scomodo all’establishment ed alla politica sportiva statunitense.
Dotata di grande potenza atletica, prima donna ad aver realizzato un triplo axel in una competizione ufficiale, non godeva dei favori dei giudici di gara, sia per le esibizioni non sempre aggraziate, sia per il proprio retroterra familiare e culturale.
Cresciuta nella provincia americana, in un ambito familiare altamente disfunzionale, vittima di una madre tiranna e disaffettiva che la istiga brutalmente alla raggiungimento del successo, legata da una controversa relazione con un marito violento, Tonya (interpretata da Margot Robbie) mal si presta a rappresentare l’icona del mito del sogno americano. A complicare la sua vita, lo strampalato piano ordito dal marito Jeff Gillooly (Sebastian Stan) con la complicità di un autentico balordo, più ancora che psicopatico, il suo amico Shawn Eckhardt (Paul Walter Hauser), per mettere fuori gara la principale avversaria della moglie, appena prima della finale del Campionato statunitense del 1994. Aggredita e ferita ad un ginocchio, Nancy Kerrigan, non parteciperà alla competizione e Tonya conquisterà il titolo ed il diritto di partecipare alle Olimpiadi, dove giungerà all’ottavo posto. Ma nel frattempo, le indagini della FBI hanno messo in luce la responsabilità del marito e della sua banda di scriteriati ed il coinvolgimento, più o meno diretto della Harding. Probabilmente l’enorme eco mediatica internazionale della vicenda e le già citate ragioni di politica sportiva, concorsero ad una punizione sin troppo severa per Tanya, che, oltretutto, fu radiata a vita dalla federazione di pattinaggio. Incapace di sottrarsi al clamore del pubblico, la Harding tenterà, senza troppo successo, la carriere di pugile, prima di essere per sempre ringhiottita dall’anonimato dell’America da cui proveniva, l’America della banale quotidianità, elusa dal sogno americano. L’America che non può vincere.
Gillespie ci illustra uno spaccato di questa America, con toni vividi e duri, ma non senza una punta di intelligente ironia. Il film distribuito negli USA alla fine dello scorso anno, dalla fine di marzo anche nelle sale italiane, utilizza l’espediente narrativo di uno pseudo-documentario drammatizzato, imperniato su false interviste ai protagonisti (tratte però da interviste vere). Da sottolineare la corale eccellente prestazione del cast, sottolineata anche dal Golden Globe e dall’Oscar conferiti a Allison Janney, nei panni della madre Lavona Harding, come migliore attrice non protagonista.
Il regista di origini australiane, è conosciuto dal pubblico italiano per Fright Night – Il vampiro della porta accanto (2011), remake di Ammazzavampiri (1985) o per L’ultima tempesta, (Finest Hours, 2016) ma, molti cinefili lo ricorderanno per il film indipendente Lars e una ragazza tutta sua (2007), un’opera deliziosa dove si era confrontato, con estrema eleganza, con i temi della pazzia e della provincia americana.