Bari, 09 Luglio 2013. Siamo stati in visita presso il presidio dei lavoratori della OM carrelli elevatori, ora KION, nella zona Industriale prospiciente allo stabilimento di Modugno.
Un gazebo improvvisato piazzato nel bel mezzo del caldo torrido, davanti all’ingresso principale di uno stabilimento – fiore all’occhiello del glorioso marchio Italiano fino ad un ventennio fa – che si estende su di una superficie di quasi 50.000 mq della zona ASI grazie anche ai contributi della Cassa del Mezzogiorno (dunque danari pubblici).
Ci siamo riproposti – in questa prima inchiesta sullo stato di salute della Industria Barese – di ascoltare tutte le parti in causa e, in questo caso, iniziamo l’indagine ascoltando i lavoratori.
Per il momento, le voci da ascoltare sono una decina: ci sediamo in mezzo a loro.
L’aspetto di ciascuno dei nostri interlocutori è quello di un qualsiasi padre di famiglia, qualsiasi operaio o impiegato che – evidentemente – mai avrebbe potuto immaginare, qualche anno fa, la possibilità di venirsi a trovare fuori dal cancello di quello che è stato non uno stabilimento ma l’avamposto di un blasonato marchio storico Italiano che ha prodotto auto e finanche treni.
Infatti gli albori della OM in Italia derivano dalla fusione della “A. Grondona Comi & C.” (costruttore di chassis per carrozze a cavalli) con la Miani e Silvestri nel 1899. Dalle due società, la prima della quale attiva sin dal 1849, nasce la Società Anonima Officine Meccaniche che completa l’asset e lancia il vero e proprio marchio OM acquisendo nel 1927 la O.M. Carrozzeria di Suzzara in provincia di Mantova, fondata nel 1878 da Alfredo Casali per la produzione di macchine agricole.
Nel 1933 la acquisizione da parte della FIAT, con un sessantennato di successi.
Nel 1992, l’acquisto da parte di Linde con il relativo marchio e dunque la creazione della OM carrelli elevatori SpA (2002) .
Nel 2006, i tre marchi LINDE, STILL e OM confluiscono nel Gruppo KION.
Nel Luglio 2011, l’annuncio della azienda di voler procedere alla chiusura dello Stabilimento di Bari con trasferimento della produzione ad Amburgo e contestuale avvio della procedura di Cassa Integrazione.
Da allora, svariati incontri e piani industriali con le più svariate (ma perlopiù poco fattive) offerte produttive, allettate dalla proposta a senso unico di Kion che, parrebbe, vincolerebbe la cessione dello stabilimento e delle attrezzature a titolo gratuito, a condizione di mai più destinare lo storico stabilimento per la produzione di carrelli elevatori.
Atteggiamento forse comprensibile per qualche investitore ma invero fumoso per i lavoratori – e per molti cittadini – oltre che incomprensibile in un ottica Europea di libera concorrenza sul mercato.
Tanto più che, a detta di qualcuno e come è possibile leggere nello statuto dell’ASI, lo stesso Consorzio potrebbe con i presupposti della pubblica utilità (e quale più pregnante concetto di pubblica utilità rispetto a 300 e più famiglie da sostenere) espropriare lo stabilimento – ormai improduttivo – e porlo all’asta al miglior offerente, aggirando così ostruzionismi di vario genere eventualmente posti in essere da parte di entità commerciali evidentemente ormai decise a smantellare il know how della OM o, secondo le solite malelingue, semplicemente eliminare per sempre un potenziale letale concorrente dal mercato.
In caso di esproprio, comunque, si otterrebbero secondo molti almeno due benefici:
Il primo sarebbe quello di svincolare le centinaia di dipendenti dal vortice di assistenzialismo fornito dalla Cassa Integrazione, ricollocandoli immediatamente o quasi sul mercato del lavoro (qualcuno mormora dell’interessamento di un colosso nipponico allo stabilimento e correlate maestranze);
Il secondo, sarebbe quello di dare un senso alle attività e ai danari pubblici elargiti illo tempore dalla Cassa del Mezzogiorno per il supporto alla realizzazione dello stabilimento nell’area ASI, in un’ottica certamente lungimirante di permanenza stabile sul territorio di un prestigioso Marchio Italiano.
L’ennesimo – parrebbe – passato di mano alla multinazionale di turno, guidata sotto il marchio teutonico da un fondo di Investimento in mano ai soliti noti ovvero, secondo le malelingue , Kohlberg Kravis Roberts & Co Lp (Kkr), e a Goldman Sachs Group.
In tutto questo “commercio”, trecento e passa anime, altrettante probabilmente di indotto, insomma migliaia di persone considerando i correlati nuclei familiari, alla mercè degli eventi e legati alla sopravvivenza spesso col solo ago in vena della flebo della cassa integrazione – peraltro scaduta a fine Giugno.
Un futuro che, dentro gli occhi degli operai e dipendenti del presidio, appare zoppo, monco, cupo, insomma rispecchia l’angoscia di chi aspetta il domani con paura, stanco di tante promesse non mantenute.
Roberto Loporcaro
roberto_loporcaro@virgilio.it
Meglio tardi che mai!!! Di certo i lavoratori dovevamo fare 2 anni fa quanto stanno facendo adesso, forse qualcosa si sarebbe mosso prima.
Bloccare Bari va bene, sicuramente creare un blocco anche all’altra sede italiana (Luzzara), che ha sostituito in toto quella barese, porterebbe maggiori risultati.