Ricordate “Hannah e le sue sorelle”? In una scena del film, il protagonista Woody Allen si rivolge con preoccupazione al suo medico perché teme di avere un male incurabile. Dopo essersi sottoposto ad approfonditi esami, il medico gli comunica che i risultati sono negativi, è sano come un pesce. Il paziente esce dallo studio sollevato e felice ma la sua gioia si esaurisce in fretta: magari quella malattia potrebbe arrivare il giorno seguente. Così sprofonda nuovamente in un terribile senso di angoscia. Incontra un’amica e non le riferisce l’entusiasmo per l’esito negativo delle analisi, bensì le parla della sua paura che le cose possano inaspettatamente cambiare. La sua preoccupazione è però frutto dell’immaginazione, è proprio la sua fantasia a suggerirgli cattivi pensieri, solo pensieri che non corrispondono alla realtà. Woody sta bene ma non riesce a godere di questa fortuna, non riesce ad apprezzare il dono della vita e della salute. È questa la malattia di cui soffre, l’incapacità di vivere sereno anche in assenza di problemi fisici; una malattia in preoccupante aumento nel nostro tempo, l’incapacità di accettare la nostra finitezza.
Le scoperte scientifiche, mediche e farmacologiche non hanno migliorato le nostre condizioni di vita, ma al contrario ci hanno indeboliti, convincendoci della nostra fragilità fisica. Ne deriva una profonda sfiducia nelle nostre capacità di reagire ai problemi e alle difficoltà, che ci spinge alla continua ricerca di un supporto terapeutico o farmacologico.
Per uno strano paradosso, più ci si cura più ci si sente malati, impauriti, bisognosi di continue rassicurazioni, ma è soprattutto il commento interiore col quale si vive la condizione umana di imperfezione, come nella scena del film, la vera origine della nostra sofferenza.
Ilaria Delvino