Richiamato dalle grida di una donna che inveisce sguaiatamente contro di lui, Roman esce dalla baracca in cui vive, con fare rabbioso, lambendo una minacciosa motosega e sfoderando il suo tatuaggio raffigurante la Madonna nera degli zingari. Il suo viso, sporco e dai tratti ruvidi, racconta la storia di un immigrato rumeno che, giunto da trent’anni in Italia, si barcamena tra spaccio di stupefacenti e un lavoro in un’autorimessa. L’unico scopo di Roman, che rappresenterebbe anche il suo riscatto sociale, è far studiare suo figlio Nicu, il suo “cucciolo” come ama chiamarlo affettuosamente, offrendogli un futuro diverso, lontano dalla delinquenza. Il ragazzo, però, è cresciuto troppo in fretta, frequentando amicizie poco raccomandabili e imparando ben presto la legge che impera sulla (cattiva) strada: “homo homini lupus”, che tradotta nel linguaggio di periferia diventa “incula prima di essere inculato”.
Di stampo marcatamente sperimentale, Razzabastarda è un’opera prima, cruda e ambiziosa, con la quale Alessandro Gassman esordisce alla regia.
Adoperando un neorealistico bianco e nero, il regista attua una rischiosa operazione di derivazione pasoliniana, fotografando in maniera lucida e impietosa la degradata e degradante periferia romana in cui ci si mantiene a galla soltanto in un modo: sgomitando.
Tratta dalla piéce teatrale di Reinaldo Povod, Roman e il suo cucciolo, portata in tournèe per tre anni dallo stesso Gassman, la pellicola ha un aspetto volutamente rarefatto e sgradevole in alcuni tratti, colorandosi e assumendo le tinte rosseggianti del fuoco solo nei ricordi del protagonista e negli stati allucinati di Nicu.
Il rapporto padre-figlio si esplica in una duplice verità: Nicu prova vergogna del padre rumeno ma al tempo stesso lo rispetta; Roman, invece, cercando in tutti i modi di offrire al figlio un appiglio per salvarlo e preservarlo dalla malavita di periferia, arriva a fornirgli un esempio diverso da sé, quello di un avvocato di origini rumene e “letteralmente figlio di puttana”. L’uomo di legge, interpretato da un disincantato Michele Placido, citando Jean-Paul Sartre, consiglia a Nicu di “tatuarsi sul pisello” questa frase: “io sono quello che faccio con quello che gli altri hanno fatto di me”.
La tragicità degli eventi e la (sincera) sacralità tanto ostentata da Roman, insieme al suo desiderio di redenzione, si cozzano ripetutamente facendo scattare il meccanismo ad orologeria, insito tanto nella figura paterna quanto in quella del figlio, che esploderà nel finale estremo ed atroce.
Trailer su https://www.youtube.com/watch?v=531sylzBdLQ
Giovanni Boccuzzi