E’ passata una manciata di ore dalla mia “nomina” a responsabile di una rubrica inerente il turismo che cercherà, quotidianamente o quasi, di tenere compagnia ai lettori mediante il non certo facile compito di parlare in loco di una collega che non collabora più con questa testata.
Mi si dia dunque breve spazio per una premessa che ritengo basilare.
Il compito si rivela non facile per una quantità di motivi che non è facile qui sinteticamente elencare, ma che è possibile racchiudere in due principali macrogruppi omogenei:
il primo è il gruppo di motivi “di contesto”: parlare di turismo in tempo di crisi parrebbe compito ingrato, rispetto alle necessità primarie della cittadinanza e più in generale della popolazione, così duramente colpita da argomentazioni e problemi pratici. Tuttavia, rubando una fase di Henry Laborit, chi scrive dice che in tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare. Dunque, se viaggiare è senz’altro oggetto del collettivo sognare, il giornalismo “di viaggio” deve continuare a fornire righe di fuga, ancorchè virtuali, e dunque notizie e visioni ed esperienze che possano spronare alla conoscenza del territorio, all’ampliamento dei propri ambiti, alla cognizione che i limiti geografici possono e devono essere una risorsa (e in qualche caso una soluzione); il giornalismo di viaggio si pone dunque come antidoto di contrasto dei problemi quotidiani tentando di commutarli – si spera fruttuosamente – da problematiche insormontabili a criticità ridimensionabili, in un’ottica costruttiva di informazione etica.
Il secondo gruppo di motivi è invece “di aspettativa”: intraprendere una strada già “aperta” da una collega potrebbe apparire compito facilitato mentre invece, nella realtà, propone una difficoltà crescente, ovvero quella della aspettativa da parte del lettore e dunque della meritevolezza ed autorevolezza di argomentazioni rispetto alla personalità la cui assenza è stato dato il compito di colmare.
A questo chi subentra pone rimedio con la più logica delle deduzioni: il libero arbitrio accompagnato dalle esperienze, ovvero dalla propria visione del passato in uno alla cognizione del reale e presente e, dunque, dalla corrispondente (bravura o ciucagine starà al lettore sancirlo, ma in un secondo momento) abilità nel conferire valore aggiunto alla rappresentazione di fatti e contesti;
tali fatti e contesti, in quanto turistici, dovranno certamente suggerire evasione e dunque al tempo stesso bellezza, cultura e svago ma – in qualche caso – si allargheranno in territori limitrofi (anche con ironia) per spronare ad esplorare spazi di ragionamento inusuali mediante indizi che il lettore potrà decidere se utilizzare come ulteriori “vie di fuga” verso approfondimenti personali, divagazioni a tema ovvero temi di attualità e, non ultimo, opportunità di business.
Fatte queste premesse, iniziamo questa nuova avventura partendo dal primo posto che realmente dovremmo conoscere, se non altro per avere una base di confronto con gli altri che ci accingeremo a visitare, ovvero la “base”.
In questo caso – gli altri non se ne abbiano a male – partiremo proprio dal capoluogo di Provincia che ospita la nostra testata: Bari.
Dunque, Buon viaggio.
La nostra Bari ha radici storiche assai confuse.
Da qualche parte nel poco variegato universo di archivio storico della città, essa rimanda il suo primo insediamento all’epoca dei Messapi, o magari dei Japigi.
Inizieremo il nostro viaggio virtuale dunque dal porto vecchio, dal cui lungomare il borgo Murattiano – fulgido esempio di razionalismo urbanistico ortogonale – strizza l’occhio all’Oriente tartaro e articolato, coprendo con la regolarità degli incroci il vorticoso vociare di una popolazione da sempre vocazionata al commercio, alla trattativa, alla animosa conversazione.
Il borgo murattiano fa altresì da argine al vorticoso intreccio della città vecchia, promontorio azzardoso di case bianche – un tempo direttamente addossate a mura a diretto contatto col mare – nei tempi del fascio invece dotate di un lungomare “filtro”, a tratti monumentale nei suoi palazzoni Aeronautica, Provincia e Regione, che fornisse alla città in crescita “vie di fuga” per un traffico veicolare altrimenti incastrato tra le tele del murattiano e l’argine – spesso invalicabile – del fascio ferroviario immediatamente ad ovest dello stesso.
Costeggiando il Corso Vittorio Emanuele in direzione della Piazza Massari – preferibilmente a piedi – al turista curioso dopo numerosi mezzibusti di personalità illustri (e tutte degne di un qualche soffermarsi) apparirà in tutto il suo splendore un maestoso equino, dono di una nota Banca locale al Comune, rappresentante ideologicamente l’economia della città e dunque posto, in virtù di un simbolismo fin troppo esemplare, di fronte al palazzo dell’economato e ragioneria del comune, palazzo Ex Standa.
Ora, le malelingue certamente opporranno che rappresentar la cittadina economia con destriero senza cavaliere potrebbe nascondere un retrogusto satirico, ma certo i più dovranno confermar certune malevolezze nel veder tali e tante serrande irrimediabilmente serrate per chiusura, segno inequivocabile che l’economia cittadina non attraversa oggi certo buone sorti, ovvero che i buoni cavalier potrebbero esser migrati in miglior porti.
Ma comunque, riprendendo il cittadino girovagare, certo occorrerà lasciarsi il solitario destriero alle spalle e, girando a destra dopo il palazzo di Prefettura (fronteggiante a sua volta il Teatro Piccinni e/o annessa casa comunale), accostarsi al maestoso Castello.
Evidente maniero rimaneggiato nel corso di svariati contendimenti, conserva nella sostanziale irregolarità architettonica un fascino singolare e diverse interessanti prospettive che si prestano a variegate sfumature fotografiche, a seconda del vertice entro il quale lo si voglia inquadrare. Lontano dalle matematiche proporzioni di Castel del Monte, il Castello di Bari in qualche modo rappresenta traccia calcificata della malleabilità del territorio (e della popolazione) ad adattarsi ai conquistatori via via intervenuti nel corso dei secoli.
Volendo, se ancora in possesso di macchina fotografica, approfondire la visita nel centro storico, attraverso i vicoli si potranno assaporare i contorti budelli entro i quali si svolgeva la passata vita sociale ovvero approfondire le proprie conoscenze architettoniche in tema di Romanico visitando le numerose chiese e chiostri senza tralasciare, ovviamente,la Cattedraleela Basilica.
Certo, perché Bari è anche promontorio Cattolico d’Europa proteso verso l’Oriente multietnico ma sopratutto Ortodosso.
Ordunque, deviando schiere di crocieristi che girano intontiti senza ben sapere dove andare a parare, fate pure un giro fuori dalle mura e riprendete dal Teatro Margherita il vostro tour cittadino. Il teatro Margherita è quella grossa costruzione rossa ormeggiata nel porto vecchio, simbolo della creatività cittadina e dunque perennemente circondata da recinzioni che sembrano di cantiere ma in realtà sono installazioni temporanee di molti artisti di fama internazionale.
A volte, quando qualche artista sloggia lasciando una facciata libera o magari la porta d’ingresso, qualcuno vi si intrufola e organizza una mostra al coperto, sfruttando il grezzo dei lavori mai ultimati come cornice impareggiabile per contesti di tipo impressionistico, neorealistico o minimalista.
Ma, suvvia, occorre accelerare; procedendo sul Corso Cavour potrete ammirare a sinistra, in serie:la Cameradi Commercio,la Bancad’Italia, il Petruzzelli. Sulla destra, invece, isolati e isolati dedicati alle vetrine dello shopping, preambolo di parallelismo alle successive commercial road, prima tra tutte via Sparano, custode tra l’altro dello storico e araldico, nonché a tratti barocco, Palazzo Mincuzzi, ora sede di un negozio di nicchia che rappresenta un marchio tipicamente Barese: i colori vividi e multietnici che fondano il loro tessuto su lana caprina.
Ma, non divaghiamo e torniamo al Corso Cavour.
Proiettati oltre il fascio ferroviario con il ponte XX Settembre, eccoci nel quartiere Carrassi, culla del boom edilizio post bellico.
Volendo accennare ad una piccola deviazione imboccheremo, dopo un breve tratto di extramurale, il Corso Benedetto Croce.
Incontreremo, dopo qualche centinaio di metri, sulla sinistra, i caseggiati ex residenze Poste e Telegrafi, brillante esempio di edilizia convenzionata per dipendenti a tetto spiovente e capriate in legno.
Dopo qualche ulteriore centinaio di metri, ecco sempre sulla sinistra la maestosa Chiesa Russa, un tempo di nome ora anche di fatto.
Residenza storica del Patriarcato di Mosca, eretta dallo Stato come simbolo di amicizia nei confronti di un popolo che con noi condivide il Culto del Santo Nicola (le cui spoglie, ricordiamo, furono “recuperate” dai Baresi presso la città di Myra nell’undicesimo secolo e adagiate nella Basilica di cui prima raccontato), rappresenta il più grande esempio di architettura Ortodossa in Italia, brillante delle sue tegole ramate disposte sulle guglie a goccia dei vari torrioni svettanti.
Potremmo proseguire il viaggio verso il quartiere più ad Ovest della città ovvero l’ex comune di Loseto, ma preferiamo fermarci qui, quasi nei pressi del Carcere.
Scopriamo infatti che Bari ha ancora innumerevoli cose – citate e non – da scoprire e approfondire e, per quanto possibile, risolvere.
Una bella città che però spesso viene rappresentata con luoghi comuni le cui argomentazioni fermano la sua fama proprio lì, come questo articolo ha fatto, nei pressi del Carcere.
In segno di vana protesta, il primo vero viaggio di questa rubrica si ferma dunque qui, in attesa di fortune che da troppi anni sembrano non voler arrivare, proprio come le promesse che – puntualmente e ad ogni tornata elettorale – le malelingue sostengono arenarsi dopo i primi giorni di consiglio.
Chissà, forse lo sviluppo del Commercio (ad esempio anche attraverso un miglior sfruttamento delle potenzialità di marketing del più che centenario Centro fieristico) aiuterebbe questa città a mettere il primo mattone a base del sistema sociale del lavoro come diritto e non come privilegio, aiutando al contempo la città a svincolarsi da quell’alone di malaffare che – spesso impropriamente – la accompagna nell’immaginario nazionale e non.
Mentre ci pensiamo, magari andiamo a passeggiarci su al vicino Parco 2 Giugno, sempre che non sia Lunedì perché, come recitava una laconica voce di un vecchio custode che lì operava alla Domenica sera, al Lunedì il parco è chiuso.
Chiuso, proprio come il Martedì e il Giovedì molti negozi in centro, nonostante due o più compagnie Crocieristiche riversino a terra circa cinquemila persone nell’orario di pausa pranzo.
Ci si chiede, dunque, se in qualche modo non sia anche il Barese a voler lasciare, per inciso, il famoso cavallo senza cavaliere.
Roberto Loporcaro
24/03/2013