Il romanzo Apri gli occhi (L’Erudita ed., Roma) è il nuovo lavoro editoriale della scrittrice Rita Lopez, sociologa e archeologa barese, attualmente residente a Roma. In esclusiva, abbiamo intervistato l’autrice.
Dopo il blog Storie e altro. (Gli dei. Gli eroi. Le donne e gli uomini) e l’ottima accoglienza della tua prima raccolta di racconti, Vie d’uscita, (Florestano ed., Bari), hai voluto cimentarti con un romanzo: Apri gli occhi. Come hai affrontato questa nuova sfida?
È stato un passaggio graduale. Dal blog, con storie concentrate in una decina di righe, al racconto, racchiuso in poche pagine, fino al romanzo, di più ampio respiro. Trovo che ognuna di queste tre forme di scrittura abbia il suo fascino e le sua difficoltà. Le storie del blog erano quasi fotografiche. Ogni parola andava scelta con estrema attenzione, perché come in una fotografia d’altri tempi, anche la minima posa, il più piccolo dettaglio, vanno curati. Nel racconto devi avere grandi capacità di sintesi. È un vero e proprio esercizio di bravura, perché il racconto ha come scopo l’immediatezza. E l’immediatezza di un bel racconto è straordinaria. Pensa soltanto ai racconti di E.A. Poe, o Moravia, o Alice Munro, o Carver. Ma anche a Verga, andando più a ritroso. A Pirandello… Il romanzo ha un’architettura molto più ampia e varie sotto-trame. Per quanto riguarda Apri gli occhi la parte più complicata è stato far corrispondere, senza contraddizioni, gli avvenimenti storici, realmente accaduti, con le storie dei protagonisti. Ho dovuto costruire uno schema di date da rispettare, per evitare qualsiasi tipo di incoerenza.
La protagonista, vivendo a Bari, avverte un’emarginazione storica dai tragici eventi del Paese. Tu, da adolescente cresciuta nel quartiere Libertà, hai avuto la sua stessa percezione?
La parte più autobiografica del romanzo è proprio il contesto storico di quegli anni e l’impatto, violentissimo, che questo contesto ha avuto sulla protagonista principale, Anna, che all’epoca, a metà degli anni Settanta, era una ragazzina. Ricordo quegli anni come un periodo caratterizzato da una violenza inaudita. E non parlo solo di violenza politica, ma anche di violenza sociale. Quello che accadeva in Italia, che mi giungeva attraverso le immagini della televisione, gli articoli dei giornali, la radio, mi rendevano consapevole del fatto che il Paese fosse caduto in un gorgo che l’aveva completamente risucchiato. Peccato però che non ci fosse nessuno che mi spiegasse il perché. E poi c’erano le donne, e il femminismo, che è stato un forte momento di critica storica alla famiglia e alla società. Ma Anna, come me, si trova a vivere in una città del sud, Bari, in un quartiere estremamente popolare, il Libertà, all’epoca fortemente tradizionalista, in cui c’era ancora una rigidissima suddivisione dei ruoli tra maschi e femmine. Guai a sgarrare! E poi, chi erano quelle donne con le gonne a fiori e i cappelli da strega in testa che manifestavano nei cortei del centro, e cosa si celava dietro quello strano gesto quando univano le mani? Anna, come me allora, è una che si fa domande, a cui però gli adulti non hanno né la voglia, né il tempo e, a dire il vero, neanche la capacità di rispondere. Forse l’emarginazione riguarda più questa volontà di capire senza riuscire a capire, perché non c’è nessuno che ti aiuti. Eppure Anna qualche risposta se la deve pur dare.
È sempre forte per te il legame con Bari e con il tuo quartiere. Pur stando a Roma da tanti anni, avverti sempre l’eco e il richiamo delle tue radici, delle strade e della gente della tua città. Cosa rappresenta per te Bari e perché è così importante per te renderla cornice delle tue storie?
Quest’immagine delle radici mi è sempre piaciuta. Partono da un punto, le radici, ben piantato sulla terra, ben definito, ma poi si muovono, si diramano, cercano nutrimento altrove, hanno contatti con altre radici. Bari è il mio punto di partenza. Il dialetto barese è la prima lingua che è ho ascoltato. Il Libertà è stato il mio primo confortevole microcosmo. Il lungomare il luogo perfetto che lasciava spazio alle possibilità, al volo, allo slancio vitale. Prova a guardare, in certe giornate di tramontana, il punto dove il mare e il cielo si confondono, all’orizzonte, e dimmi se non è vero. Finora Bari è stata cornice delle mie storie perché è parte di me. Ed è più facile parlare di qualcosa che conosci bene. E che ami. Bari è come mia madre. Come posso non amarla?
In molti dei tuoi racconti e adesso nel tuo romanzo ci sono bambine, ragazze e donne, che emergono grazie alla loro ancestrale forza di guerriere, come ami definirle tu. Da donna e scrittrice, senti la necessità e insieme la responsabilità, di render loro omaggio attraverso le tue storie?
Sono nata e cresciuta in una famiglia di guerriere. Donne caparbie, forti, tenaci. Uno dei miei racconti, in Vie d’uscita, è dedicato a Marianna, la mia bisnonna, operaia per quarant’anni alla Manifattura dei tabacchi di Bari, che andò a lavorare contro la volontà del marito (“percè na femmn iè brutt ca va a fatigà”), ma fece bene, perché poi il mio bisnonno morì giovane e la lasciò da sola, con sette figli. Ettore e Achille, ogni mattina, non indossavano l’armatura? Non si infilavano l’elmo sulla testa e imbracciavano l’arco? Marianna ogni mattina si sistemava le calze autoreggenti, si legava i lunghi capelli tirandoli su in una crocchia, si metteva le scarpe sformate dall’uso e andava in fabbrica. Per me non c’è alcuna differenza tra questi due rituali di vestizione. Non vedo la differenza tra Achille, Ettore, e Marianna. Rendere omaggio alle donne della mia famiglia, attraverso i miei personaggi, è un onore.
Da archeologa e da appassionata e studiosa di letteratura classica, la mitologia è giustamente una costante presenza acronica nella tua narrativa. La avverti anche nella tua quotidianità?
Più che la grande epica, quella che ci insegnavano al liceo, popolata da eroi eccelsi e irraggiungibili, è l’epica del quotidiano quella che più mi affascina e mi stupisce. L’epica che viene fuori dalla gente comune, dalle donne e dagli uomini che ci capita di incontrare nelle nostre vite, dai personaggi della porta accanto. Eroi silenziosi, abituati a stare dietro le quinte, che mai riceveranno la gloria del trionfo, che mai entreranno nei libri di storia, di cui mai saranno celebrate le gesta, ma che pure lasciano il segno in chi avuto la fortuna di viverci accanto. E che segno, gente! Che segno.
Giovanni Boccuzzi