Quante volte ci è capitato di perdere un bel film al cinema? Personalmente, non posso contare tutti i gran bei film che, per una serie di sventurati eventi, ho finito per non vedere durante il periodo di programmazione nelle sale cinematografiche. In aiuto di noi spettatori “troppo impegnati” accorre, anche quest’anno, l’ eccezionale iniziativa culturale del “Bari International Film Festival”, giunto ormai alla sua terza edizione. Il Bif&st si concluderà domani 31 marzo ma ci ha offerto l’opportunità di rivedere alcuni dei migliori film prodotti nell’ultimo anno.
Oggi, a me, ha regalato “Cesare deve morire”, il docu-film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, girato dietro le sbarre del carcere di Rebibbia che ha permesso ai due coraggiosi registi, ormai ottantenni, di ottenere il massimo premio della 62esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino. All’interno del famoso istituto di correzione romano alcuni detenuti, offertisi volontari, diventano i protagonisti di un progetto teatrale che mira ad offrire nuove prospettive e fertili speranze a coloro che hanno sbagliato. Dietro le direttive del regista Fabio Cavalli, i detenuti, sono chiamati a far rivivere sulle tavole del palcoscenico del carcere le vicende dei cesaricidi sulla scia della tragedia shakespeariana intitolata “Giulio Cesare”, re-interpretandola nei loro personali dialetti d’origine che diventano espressiva voce teatrale. La rappresentazione scenica ben presto si sgretola e si espande all’intero istituto di correzione, diventando una recita nella recita. I fratelli Taviani usano, infatti, la tecnica del “work in progress” attraverso la quale, con una matrice spiccatamente pirandelliana, la realtà emerge dalla finzione e la finzione vela la realtà. Il “Giulio Cesare” è una tragedia che racconta di tradimenti, di congiure, di potere e di paura, ma soprattutto della voglia di essere liberi. Grazie all’interpretazione concreta di queste tematiche emergeranno le paure, i rimorsi ed i rimpianti negli “attori” che arriveranno a sentire come propria la storia dei cesaricidi. Attraverso un complesso meccanismo di incastri e piani di narrazione, facilitato dall’uso alternato di colore e bianco e nero (splendida la fotografia di Simone Zampagni), nel film si intrecciano i topoi del cinema carcerario, come ad esempio quello del difficile rapporto tra detenuti ed, attraverso le parole del dramma teatrale, che riflettono sulle maglie del potere, sui suoi inganni, le sue lusinghe, si perviene ad una riflessione attuale sulla morsa in cui sono stritolate persone semplici che finiscono con l’affidarsi al crimine, alla corruzione e all’omicidio. Esplicativa è la frase di Bruto (Salvatore Striano) rivolta alla folla: “Preferireste che Cesare fosse vivo e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi?” in cui, personalmente, ho letto un’ esortazione a ribellarsi, rivolta a tutti coloro che vivono schiavi della criminalità organizzata. Nel film si dissolve il confine tra realtà e finzione scenica, tra spettacolo e speranza. I detenuti recitano e poi tornano in cella. Recitano, ma sono dentro la loro stessa vita, la loro medesima lotta, il senso o nonsenso del loro essere lì.
Di ogni attore si conosce la pena detentiva, ne si percepisce la pena interiore, il desiderio di libertà. E, dunque, proprio come afferma alla fine del film Cosimo Rega, “Cassio”, fine pena: mai, da quando l’arte è entrata nelle loro vite, le loro celle sono diventate una prigione. L’arte diventa strumento di redenzione, la prima, in questo caso l’unica, forma di libertà.
Chiara De Gennaro